Rethink Materialism

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Tecnologie dell’Intuizione

La prossima «rivoluzione» – nella cultura del management – coinvolgerà il modo in cui impariamo, progettiamo, creiamo e prendiamo decisioni.
Oggi – nelle organizzazioni – tendiamo a fare tutto questo dallo spazio delle nostre capacità analitiche e cognitive, ma domani dovremo farlo sfruttando anche le nostre dimensioni intuitive.
Perché se il futuro è soltanto l’evoluzione o la proiezione dei modelli presenti o passati, non potrà essere abbastanza “nuovo” e non potrà esserci spazio per tutti.
Ci serve un “altrove” fatto di nuovi modelli e nuovi paradigmi, che non possono essere il risultato di ciò che già sappiamo.
Solo la nostra intuizione può portarci in quell’ “altrove”. E solo se questa nostra risorsa verrà coltivata, promossa e incentivata anche nelle pratiche di management, potremo trasformare le nostre organizzazioni in sistemi ispirati, ispiranti e capaci di creare valore per tutti gli stakeholders anche in contesti incerti, volatili e complessi.
Il segreto dell’intuizione è che Lei si manifesta solo quando “Noi” non ci siamo, ovvero quando riusciamo a disidentificarci da credenze, conoscenze acquisite, aspettative e ansia di realizzazione.
Non si può «trovare» un’intuizione, possiamo solo accorgercene. Perché “trovare” qualcosa presuppone uno sforzo di qualcuno nella sua ricerca. E lo «sforzarsi» ci rende troppo «presenti», portandoci ad occupare proprio quello spazio che serve all’intuizione per comunicare con noi.
Con “tecnologie dell’intuizione” non si intende una tecnocratizzazione della creatività (che per sua natura deve essere libera da regole e modelli) ma una serie di principi e strumenti che collaborando fra loro possono aiutare singoli, team e organizzazioni, a creare le condizioni e lo “spazio” perché la nostra intuizione possa dialogare con noi e darci indicazioni del tutto nuove.
Il cuore di questo “processo” ispirazionale è il “passaggio dallo Zero”: saper creare dentro di Sé, attraverso un progressivo processo di disidentificazione, quella condizione di vuoto generativo dalla quale emergerà proprio ciò che non ci aspettavamo.

Tecnologie dell’Intuizione è in corso di pubblicazione per Guerini Next Editore
(marzo 2019). 
Segnala il tuo interesse (scrivendo un commento) se vuoi essere avvisato/a dell’avvenuta pubblicazione.

 

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Il cambiamento: amico o nemico?

(english version to the bottom)

Io cambio. Io vengo cambiato.
Capita che il cambiamento lo si decida noi ma capita molto più spesso di trovarci nella condizione di gestire un cambiamento che non ci aspettavamo.
E anche quando siamo noi a decidere di cambiare, quella del controllo è l’illusione in cui cadiamo più spesso. Perché c’è sempre qualcosa che non possiamo prevedere e di cui mai avremo il pieno controllo. Il cambiamento è come camminare sulla superficie terrestre: il tuo nuovo orizzonte si svela soltanto mentre sei in cammino. Ma non succede mai di riuscire a vederlo già dalla partenza.

Il cambiamento fa paura, è naturale che sia così.
E quando ci sentiamo in pericolo il nostro cervello “rettiliano” (quello più antico che presiede alle nostre risposte istintive) ci fa reagire come gli animali: attacco, fuga o finzione (di essere morto, come fa l’Opossum).

E di fronte al cambiamento diciamo che le nostre emozioni si posizionano a due estremi: una totale passività che ci fa sentire “prede” del cambiamento o una totale aggressività che si esprime nel suo completo rifiuto: il cambiamento è un nemico e non lo farò entrare nella mia vita…

Ma esiste una terza possibilità, quella di cercare un proprio equilibrio fra questi due opposti.

Ecco qualche riflessione sulle strategie utili per affrontare il cambiamento e trovarvi il proprio equilibrio::

1. Noi siamo soprattutto quello che di meglio possiamo ancora diventare
Fino a quando continueremo a definire la nostra identità guardando al passato (al nostro CV), beh il cambiamento sarà sempre una ferita aperta, perchè la sensazione sarà quella di un “furto di identità”. Già perché non è cambiamento se continui a fare ciò che hai fatto e come lo hai fatto fino ad oggi. Ma se cambiamo prospettiva, se accettiamo che quello che noi siamo davvero sono le nostre future potenzialità forse il cambiamento assume un ruolo diverso e per alcuni diventa veicolo di inaspettate scoperte su di Sé.

2. Se il cambiamento ci fa paura l’antidoto non è il coraggio, ma l’azione.
Proprio come fanno i bambini che di fronte a qualcosa di nuovo lo esplorano, lo toccano, ci si arrampicano. Lo lasciano entrare nella loro vita per farne esperienza e solo allora lo giudicano. L’esplorazione del nuovo si accompagna sempre ad una sensazione di “possibilità” e quando la sentiamo dentro di noi, ecco che la nostra mente si convince che il cambiamento si può fare.

3. Solo se ci arrendiamo ad una situazione nuova, poi la possiamo modificare
La resa non è sconfitta è soltanto un “abbassare le armi”, poter conoscere meglio il cambiamento, per dargli una possibilità di farsi sperimentare.. Di trovare al suo interno lo spazio per modificarlo a nostro vantaggio. Ciò a cui opponi resistenza persiste. Ciò che accetti può essere cambiato. Diceva Carl G. Jung.

4. Non possiamo affrontare il cambiamento senza delle “costanti”
La vita non può essere solo cambiamento perché ognuno di noi ha bisogno di punti fissi, di riferimenti, di un “àncora” che ci aiuti a mantenere una nostra stabilità. Quest’ancora non è l’abitudine ma il nostro “perché personale”, ciò in cui crediamo, i nostri valori. Quando siamo presenti a noi stessi e consapevoli dei nostri valori e di ciò che è veramente importante per noi, abbiamo più forza per adattarci al “nuovo”.

5. Possiamo cambiare solo se ci diamo il permesso di sbagliare
Il nuovo è sperimentazione, talvolta è imparare daccapo ed è sempre spingersi in territori inesplorati. Ecco perché così di frequente vediamo il cambiamento come un nemico, perché abbiamo paura di sbagliare e di essere giudicati per questo.
Proprio su questa ultima riflessione – la più importante – mi piace condividere la testimonianza di un grande del Basket: Michael Jordan. “Avrò segnato undici volte canestri vincenti sulla sirena, e altre diciassette volte a meno di dieci secondi alla fine, ma nella mia carriera ho sbagliato più di 9.000 tiri. Ho perso quasi 300 partite. Per 36 volte i miei compagni si sono affidati a me per il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito tante e tante e tante volte nella mia vita. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto.”

Grazie a Lorenzo Merli,  Laura Travierso e Gianluca Campagnani per avermi permesso di contribuire al Business Day di LR Health & Beauty.

 

IS CHANGE MY FRIEND OR MY ENEMY?

I change. I am changed.
We are sometimes the ones who choose change in our lives, but more often than not, we’re having to deal with the effect of changes that we really weren’t expecting. And even when we are the ones driving change, we often kid ourselves that we can remain in control. Instead there is always some unseen element that can never fully be controlled. Change is like walking on the surface of the Earth: a new horizon only appears when you move forwards some distance. You won’t have clear picture of it at the starter line of any change journey.

We do tend to be frightened by change. It’s completely normal.
And when human beings feel at risk, our reptilian brain (the one which rules instinctive reactions) makes us react using three strategies that animals typically employ: attack, escape or pretence (deaf fiction, like the one the Opossum uses).

When we face change we tend to embody two opposite state of minds: feeling totally passive as if we were “pray” to change, or else a rather aggressive and strong refusal, or resistance to that change, i.e. ‘change is the enemy and I won’t let it into my life’.

But there is a third possibility – to find a balanced place between these two polar positions. I’ve seen people do this often in my work as a counsellor. Let’s see what I learnt from those people, which works very effectively as way of turning change into an ally…

  1. Change the story about who you are, to reflect your best self
    Until you stop seeing yourself and your identity as the list of all your accomplishments and how you did it things up until now, change will always create suffering. Because it will oblige you to do things differently from the past (or we couldn’t call it “change”) and you’ll see change as the robber of your identity. But what if we shift stance and realise that who we are is not only what we did previously (and how we did it), but also innate potential of who we’re becoming – a future self. Then maybe some of you may experience the change as an extraordinary vehicle of discovery for finding the true you.
  2. When we are frightened by change, it’s not courage we need but action
    Courage is just a concept and you cannot become courageous in a mere snap of the fingers. Courage comes from experience, experience produces trust in yourself and trust produces courage. We have to learn from little kids: when meeting something new, they climb it, they taste it, they touch it, they experience it. When we are in a direct experience, our body can feel the pleasure of that newness, a taste of the possibilities it holds, and when we feel this inside, our mind begins to believe that it can now be a feasible pathway.
  3. In meeting change, we have to “surrender” and then work with it
    Surrender is not defeat, not at all. It’s a lowering of defences, and an attitude of mind that allows us to let changes in, so that we can get to know them, evaluate them and…find the space to shape it, and make it more “personal”. What you strongly oppose gets stronger through resistance. What you accept, you will be able to modify. Said C.G.Jung.
  4. Within change you need stability
    Within times of change, it’s also important to hang on to some things that you can rely on. You need “anchors” that help to provide a felt sense of stability during the flux. But that “anchor” cannot be old habits (if they’re not under pressure to change it’s not really evolutionary change). Instead it must about your “why”, your “raison d’être”, your values, what really matters to you in life. When we are conscious and mindful – in the here and now – attuned to both ourself and our values, we can embrace change with more ease, positivity and inspiration.
  5. Give yourself permission to fail
    Change and new discovery is all about the unknown. It’s all about prototyping and experimentation, it’s all about un-learning and re-learning. How many mistakes can we make? As many as we need to learn. That’s it. But how can we experiment without a willingness to fail? How can we manage change if we are too scared to be judged. That’s why change is often felt as a threat. Because the harshest judge is our own self!
    See what the guru of Basketball – Michael Jordan – says about mistakes: “I made at least 11 winning shots at the end bell in my life and other seventeen times at no more than ten minutes from the game end, but in my career I missed more than 9.000 times I’ve lost more than 300 games. 36 times my teammates trusted me to take the decisive shot and I failed. I failed so many times in my life, so many times. And this is the reason why, in the end I won everything.”

Thanks to Lorenzo Merli, Laura Travierso and Gianluca Campagnani for having brought me in to offer a session at the Business Day with LR Health & Beauty.

Ogni tanto dobbiamo “girare la telecamera”

Come ben raccontato e sottolineato dal Prof. Otto Scharmer del MIT, quando gli astronauti diretti sulla Luna orientarono la telecamera verso la Terra, l’umanità (per la prima volta nella storia) ebbe l’occasione di osservare sé stessa. E si dice che la coscienza ecologica cominciò a diffondersi come valore di massa anche grazie a questo momento di auto-osservazione e consapevolezza.

Anche i sistemi organizzativi – per evolversi – hanno bisogno di “girare la telecamera” ed auto-osservarsi. Ovvero osservare una rappresentazione di sé, della propria struttura organizzativa, dei propri valori, del proprio presente e del proprio potenziale futuro.

Costruendo metafore e rappresentazioni del sistema, tutti lo possono osservare sia in forma statica che dinamica: le rappresentazioni sistemiche, il mapping 4D, il presencing theatre, il Lego Serious Play sono tutti metodi molto efficaci che consentono di elevarsi al di sopra del proprio sistema organizzativo per averne una visione, non solo “totale”, ma anche “sentimentale”.

Includere il “sentimento”, la sensazione sentita (il “felt sense”) di un sistema tra le informazioni che possiamo utilizzare per averne una migliore comprensione, fa la differenza. Perché prima ancora che una soluzione possa essere concepita in forma esplicita ne esiste – sul piano intuitivo – una sensazione implicita: cogliere quest’ultima ci consente di riconoscere e catturare una direzione di sviluppo realmente innovativa (che non replica convinzioni od opinioni già esistenti), una soluzione effettivamente laterale che ci porta fuori dalle convinzioni limitanti o dai pregiudizi che talvolta limitano la crescita ed il benessere di un’organizzazione o di un gruppo.

La cosa straordinaria è osservare con quale velocità e lucidità i partecipanti ad una sessione di rappresentazione simbolica della propria organizzazione, ne colgano con precisione i fattori limitanti e attivanti. Cambiando il proprio punto di vista da interno ad esterno, spostando il proprio punto di osservazione dal centro alla periferia del sistema (come ci insegna Otto Scharmer) riescono a focalizzare collettivamente il focus del cambiamento evolutivo.

Ringrazio di cuore il management e lo staff di Havas Life Italia che mi hanno permesso di accompagnarli in una sessione di rappresentazione sistemica della propria organizzazione, andando alla scoperta delle attitudini e delle risorse strategiche per realizzare il miglior futuro dell’organizzazione.

Il tempo perso

Per ritrovarsi bisogna tornare al “tempo perso”.
Quello di quando uscivi da scuola alle 12,30 e tornavi a casa a mangiare.
Quello di quando la TV iniziava alle cinque del pomeriggio.
Quello di quando non c’era la tecnologia, i videogiochi, le app nello smartphone.
Quando potevi giocare ai Lego liberamente, senza costruire per forza quello che ti dicono loro.
Il tempo perso ti riallinea con quello che sei e ci trovi i semi di ciò che puoi diventare.
Perché sei libero di essere.
Perché non vi è nulla che devi realizzare, né obiettivo da raggiungere, né aspettativa altrui a cui rispondere.
Nel tempo perso c’è la tua poesia, il tuo desiderio, la tua fantasia, la tua immaginazione.
Il “tempo perso” non è  “tempo sprecato” ma tempo prezioso per innovare, rinnovare, evolversi come individui o come “gruppi”.

Make it meaningful

Claims. Pay-off. Credo. Mission statements. Mantra aziendali.
E’ naturale che l’enciclopedia aziendale sia ricca di frasi suggestive create con l’intenzione di motivare o più spesso di sintetizzare il senso di ciò che si sta facendo o lo scopo di un progetto o di un team di lavoro.
A questi “mantra” però spesso manca un’anima.
Li osserviamo sulle pareti della reception, li leggiamo nella brochure aziendale o sul company website o li sentiamo pronunciare agli staff meeting o alle riunioni importanti.
Ma non lasciano il segno dentro di noi e malgrado siano concepiti con la migliore delle intenzioni, vengono sovente presi ad esempio come l’evidenza di una comunicazione interna che scivola verso la retorica, perdendo la connessione vera con le persone.
Ma l’anima la possono recuperare.
E’ sufficiente rimetterli al centro di un processo di riflessione costruito intorno ad una domanda semplice: Cosa significa per me…il mantra aziendale? Mi è mai successo di sperimentarlo nella mia vita? Qual è la storia ? Come mi sono sentito? Raccontiamoci queste storie, condividiamole e scopriamo cosa significa tutto questo per Noi e per il nostro team.
Calare un concetto aziendale all’interno della propria biografia – se fatto in maniera riservata, protetta e consapevole – ne rivitalizza il senso ed il significato, lo riporta in vita e gli restituisce la sua funzione originaria: ricordare a tutti una direzione o un valore condiviso capace di orientare e motivare giorno per giorno.

In fondo si tratta di un’operazione poetica…e più visito le organizzazioni più mi convinco che gli “spazi poetici” possono essere anche in azienda una grande risorsa.

Ringrazio la LR Health & Beauty per avermi permesso di creare uno di questi “spazi poetici” insieme ai loro top sellers italiani.

“Connessioni” autentiche

Per un team cross-funzionale di circa cinquanta persone, riunitosi in occasione del lancio di un nuovo prodotto farmaceutico, mi è stato chiesto di facilitare una sessione sul tema della “connessione” e della “relazione”. E insieme al cliente abbiamo deciso di lavorare in maniera esperienziale e creativa utilizzando la plastilina colorata: il “pensare con le mani”. Perché?
Perché esprimere qualcosa di noi attraverso un’attività creativa e simbolica ci consente di raccontarci all’altro in maniera più spontanea e naturale. La mente si fa da parte e ci permette di arrenderci a ciò che siamo, di lasciarci esprimere anche quelle qualità che potremmo ritenere meno utili o funzionali ad un contesto lavorativo. La connessione più vera e profonda tra gli individui inizia proprio da quì: dal lasciarci sfuggire – come per distrazione – qualcosa di noi che rivela una piccola verità e talvolta una umana vulnerabilità. E come insegna Brené Brown nel suo famoso speech The Power of Vulnerability è proprio questo uno dei segreti per costruire relazioni forti e durature sia a livello individuale che di gruppo.

Ecco una breve narrazione dell’attività e dell’esperienza che abbiamo condiviso.

Sedersi uno di fronte all’altro, dopo essersi casualmente ma spontaneamente scelti. Decidere la giusta distanza tra le proprie sedie, quella che fa sentire vicini mantenendosi a proprio agio. E poi chiudere gli occhi per cominciare a scolpire con le proprie mani un’immagine di Sé. Nel silenzio, senza fretta, prendendosi – per una volta – tutto il tempo di cui si ha bisogno. Aspettando che siano le proprie mani a cominciare il lavoro e non la propria testa a dare le istruzioni. E, solo quando le proprie mani si sentono soddisfatte, riaprire gli occhi offrendo all’osservazione reciproca le “forme” che sono state create. Ascoltare e ricevere in silenzio ciò che la propria “opera” racconta alla persona di fronte a sé. Scoprendo cose che lui o lei vede e che a noi stessi erano forse sfuggite. Sentendosi visti attraverso proprie qualità, che talvolta sul lavoro si tengono nascoste. Accorgersi di quanta cura, rispetto ed attenzione ci sia nelle parole dell’altro, nel dosarle per essere sicuro o sicura di non farci male. Accorgersi di cosa significhi ascoltare senza intervenire, ricevere senza giudicare, accogliere ciò che l’altro ha da offrire facendolo sentire pienamente accolto.

Un “grazie” a tutti i partecipanti per avermi permesso di guidarli in questa esperienza.

“Connessioni” autentiche

Per un team cross-funzionale di circa cinquanta persone, riunitosi in occasione del lancio di un nuovo prodotto farmaceutico, mi è stato chiesto di facilitare una sessione sul tema della “connessione” e della “relazione”. E insieme al cliente abbiamo deciso di lavorare in maniera esperienziale e creativa utilizzando la plastilina colorata: il “pensare con le mani”. Perché?
Perché esprimere qualcosa di noi attraverso un’attività creativa e simbolica ci consente di raccontarci all’altro in maniera più spontanea e naturale. La mente si fa da parte e ci permette di arrenderci a ciò che siamo, di lasciarci esprimere anche quelle qualità che potremmo ritenere meno utili o funzionali ad un contesto lavorativo. La connessione più vera e profonda tra gli individui inizia proprio da quì: dal lasciarci sfuggire – come per distrazione – qualcosa di noi che rivela una piccola verità e talvolta una umana vulnerabilità. E come insegna Brené Brown nel suo famoso speech The Power of Vulnerability è proprio questo uno dei segreti per costruire relazioni forti e durature sia a livello individuale che di gruppo.

Ecco una breve narrazione dell’attività e dell’esperienza che abbiamo condiviso.

Sedersi uno di fronte all’altro, dopo essersi casualmente ma spontaneamente scelti. Decidere la giusta distanza tra le proprie sedie, quella che fa sentire vicini mantenendosi a proprio agio. E poi chiudere gli occhi per cominciare a scolpire con le proprie mani un’immagine di Sé. Nel silenzio, senza fretta, prendendosi – per una volta – tutto il tempo di cui si ha bisogno. Aspettando che siano le proprie mani a cominciare il lavoro e non la propria testa a dare le istruzioni. E, solo quando le proprie mani si sentono soddisfatte, riaprire gli occhi offrendo all’osservazione reciproca le “forme” che sono state create. Ascoltare e ricevere in silenzio ciò che la propria “opera” racconta alla persona di fronte a sé. Scoprendo cose che lui o lei vede e che a noi stessi erano forse sfuggite. Sentendosi visti attraverso proprie qualità, che talvolta sul lavoro si tengono nascoste. Accorgersi di quanta cura, rispetto ed attenzione ci sia nelle parole dell’altro, nel dosarle per essere sicuro o sicura di non farci male. Accorgersi di cosa significhi ascoltare senza intervenire, ricevere senza giudicare, accogliere ciò che l’altro ha da offrire facendolo sentire pienamente accolto.

Un “grazie” a tutti i partecipanti per avermi permesso di guidarli in questa esperienza.

La “zona” poetica

Ognuno di noi ne ha bisogno.
Tanto quanto ha bisogno di aria, acqua e cibo.
La sua mancanza produce alienazione,
quel senso del “vivere in automatico” che ci fa sentire vuoti.
La “zona” poetica è una tua attività, un tuo momento, un tuo luogo speciale,
nel quale ti riesce naturale cogliere la “sensazione sentita” della tua vita.
E non sei esattamente Tu a provare quella “sensazione”,
ma una parte di Te che esercita uno sguardo più ampio e più profondo sulle cose.
E che talvolta ti dà delle indicazioni, le migliori che puoi ricevere.
E’ importante averla una “zona poetica”, è importante tornarci spesso,
perché solo lì siamo effettivamente “svegli”.

Back to the Fireplace!

C’era una volta l’impresa, che nasceva da un Sogno.
C’erano una volta uomini e donne che costruivano con le loro mani una bottega,
che sarebbe poi diventata l’azienda di famiglia.
C’erano una volta le idee che facevano crescere intere economie.
C’erano una volta i semi, che in seguito avrebbero dato dei frutti.
Poi arrivò il “business”, che poco aveva a che fare con l’impresa perché non aveva sogni
ma solo aspettative e pretese.
Arrivò anche il primato del risultato che legittimò il compromesso.
E arrivarono anche il marketing e la retorica pubblicitaria che offrirono efficaci scorciatoie
per realizzare gli obiettivi e farlo in fretta.
E hanno funzionato così bene che abbiamo smesso di inventare perché era troppo costoso, lento e faticoso. Abbiamo così permesso alla furbizia di prendere il posto del talento, alle competenze di prendere il posto dell’ispirazione, ai processi ed alle sovrastrutture di prendere il posto dei contenuti, alle apparenze di prendere il posto della sostanza, della verità e dell’autenticità. Abbiamo così industrializzato la creatività perdendoci per strada l’intuizione e l’innovazioneCominciando a creare business, organizzazioni e marche in maniera artificiale, dunque povere di anima e di intento. Come pensare di cogliere frutti per l’eternità senza mai piantare nuovi semi. Ed oggi leggiamo i primi segnali di un crescente scollamento tra business, marche e società. Una sempre maggiore perdita di aderenza della comunicazione sulla vita reale della gente.

Back to the Fireplace è un ciclo di workshop esperienziali, dedicato a chi desidera riprogettarsi (come Gruppo di Lavoro, come Organizzazione, come Marca) ripartendo da una vocazione originaria, da un intento, da una storia, da tutto ciò che autenticamente può essere definito il “seme” del progetto aziendale. Qualcosa che conferisca rinnovata energia, motivazione e “senso” a tutti coloro che ne sono coinvolti (dentro e fuori l’organizzazione).

Si chiama “Back To The Fireplace” perché credo che ognuno di noi, ogni organizzazione, azienda o marca, possieda un luogo, uno “spazio interiore”, nel quale esiste un fuoco, una forza propulsiva. Un’energia che accende la motivazione, che guida verso un intento, che ispira un progetto, che rende una marca ispirante. Che fa di un progetto di business qualcosa per cui vale la pena lavorare. Perché ha qualcosa da dire, perché ha qualcosa da dare. Perché rende il lavoro fertile e nutriente.

Un luogo piacevole in cui stare e ritornare. Proprio come il “fireplace”, il fuoco intorno al quale si riuniscono le popolazione tribali. E mi piace pensare ad una marca, non più come all’ immagine di un progetto, ma come il suo seme.

Quando una marca viene pensata come il seme di un progetto, invece che come la sua immagine, non è più un’entità concettuale ma diventa un “oggetto tridimensionale” che si può toccare, che si manifesta in comportamenti. La marca non è più solo una delle leve del marketing mix, ma il marketing mix o il business model nella sua interezza, diventa la manifestazione di una vocazione.

E il modo in cui questa interagisce con il suo pubblico o con i suoi stakeholders, è attraverso un “sistema di esperienze”, che essendo manifestazione di un intento originario, è in grado di produrre “senso”.

Se vuoi approfondire:  Back to the Fireplace

 

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